IL COLLEGIO ARBITRALE

    Costituito  per  la risoluzione della controversia insorta tra il
Consorzio  CPR2,  con  sede  in  Napoli  alla via Morgantini n. 3, in
persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa
dagli  avv.  Domenico  di  Falco  e  Gennaro  Micillo, presso i quali
elettivamente  domicilia in Pozzuoli (Napoli) alla via Celle n. 21, e
il  Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato
per  la  carica  presso  la  casa  comunale,  rappresentato  e difeso
dall'avv.  Edoardo Barone dell'avvocatura municipale, presso il quale
domicilia   in   Napoli,  Palazzo  San  Giacomo,  in  relazione  alla
convenzione  per la "concessione della realizzazione del Programma di
edilizia  residenziale  da attuarsi nel comune di Napoli ai sensi del
titolo  VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219 - Comparto n. 7, Zona
di  S.  Pietro  a Patierno, rif. cart. D7-E5" rep. n. 4 del 31 luglio
1981 e successive varianti.

                      Svolgimento del processo

    I. - Con  domanda  di  arbitrato  del  10 novembre 1999, il CPR2,
concessionario  dei  lavori  relativi  alla costruzione di alloggi ed
opere  di  urbanizzazione  primaria  e  secondaria  del Comparto n. 7
(localita'  S.  Pietro  a  Patierno)  in virtu' di Convenzione del 14
maggio  1981  rep.  n. 4,  avente  come  oggetto,  tra  l'altro,  "le
procedure  di  espropriazione ed il pagamento delle indennita'", e di
successivi  atti  aggiuntivi  del  7 febbraio 1985 rep. n. 4 e del 15
gennaio 1986  rep. n. 82, dichiarava che successivamente alla stipula
della  convenzione,  nell'espletamento  delle procedure espropriative
affidategli  erano state incontrate maggiori difficolta' non previste
ne'  prevedibili  al  momento  della  stipula  della  convenzione,  e
pertanto  avanzava  richiesta  al riconoscimento di maggiori compensi
rispetto  a  quelli  contrattualmente  previsti  e maggiori oneri per
ritardi subiti.
    Con  lo stesso atto il CPR2 nominava quale proprio arbitro l'avv.
Paolo Di Martino, invitando il comune alla nomina del proprio al fine
della costituzione del collegio arbitrale previsto per la risoluzione
di eventuali controversie dall'art. 28 della Convenzione.
    II. - Omessa  la  nomina  da  parte  del  Comune  di  Napoli,  il
Presidente  del Tribunale di Napoli, con ordinanza ex art. 810 c.p.c.
del  27 giugno 2000, nominava quale arbitro del comune l'avv. Gaspare
Dalia.
    Con  atto  di  nomina  in  data  23  ottobre  2000, i due arbitri
nominati  designavano  quale Presidente del collegio arbitrale l'avv.
Giuseppe Di Rienzo.
    III. - In  pari data, avendo il Presidente designato accettato la
nomina,  si costituiva il collegio arbitrale fissando la propria sede
in  Napoli, alla via Ventaglieri n. 27 (presso lo studio dell'avv. Di
Rienzo)  e  designando  quale  segretario  del  collegio l'avv. Mario
Valentino.
    Venivano  quindi  assegnati alle parti termini per lo svolgimento
del procedimento arbitrale.
    Le  parti, pertanto, provvedevano a depositare memorie e relative
repliche.
    Il  CPR2, con la prima memoria del 10 gennaio 2001, depositata il
15  gennaio  2001,  rilevava,  fra  l'altro,  l'assoluta infondatezza
dell'eccezione  (che  assumeva  gia'  allora sollevata dal comune) di
improcedibilita'  dell'azione  in  relazione all'art. 3, comma 2, del
d.l.  n. 180  dell'11  giugno  1998, convertito in legge n. 267 del 3
agosto  1998,  e  all'art. 8,  comma  1,  del  d.lgs.  n. 354  del 20
settembre  1999.  Una  tal  eccezione veniva di fatto esplicitata dal
comune con la seconda memoria conclusionale del 28 dicembre 2001, con
la  quale la difesa dell'ente locale richiamava precedenti memorie, e
"in  particolare  modo  quelle  concernenti  la piu' volte contestata
improcedibilita'   dell'arbitrato   ed   incompetenza   del  collegio
arbitrale, pienamente fondate alla luce della recente e nota sentenza
della  Corte costituzionale 22-28 ottobre 2001, n. 376" (recte: 22-28
novembre 2001).
    IV. - In  data  26  marzo  2001  si  teneva,  presso  la sede del
Collegio  arbitrale,  l'udienza  di  discussione,  previo il previsto
tentativo  di  conciliazione  e  audizione  personale delle parti. Il
collegio,  riservato  ogni  provvedimento, fissava termini alle parti
per  il deposito di atto contenente la precisazione delle conclusioni
e poi memoria conclusionale.
    Con  successiva  ordinanza  in  data  24 maggio 2001, il collegio
decideva  di  procedere  con  l'istruttoria,  e  ammetteva consulenza
tecnica  di ufficio, designando il C.T.U. e rinviando all'udienza del
12 giugno 2001 per il conferimento dell'incarico.
    Espletata  e depositata la C.T.U., previa concessione dalle parti
di  proroga  del  termine  per  il  deposito del lodo, all'udienza di
discussione  del  10  dicembre  2001  il collegio concedeva ulteriore
termine  al  perito  di  ufficio  per  il  deposito  di  relazione di
chiarimenti,  e  contestualmente alle parti di memoria conclusionale,
fissando altresi' la data dell'udienza di discussione.
    All'udienza  di  discussione  dell'8 gennaio 2002, il Collegio si
riservava.
    V. - Il  collegio, riunito in conferenza riservata, ha preso atto
della  sentenza  della  Corte  costituzionale  n. 376 del 28 novembre
2001,  con la quale la Consulta ha affermato che "gli arbitri rituali
possono e debbono sollevare incidentalmente questione di legittimita'
costituzionale  delle  norme di legge che sono chiamati ad applicare,
quando  risulti  impossibile  superare  il  dubbio attraverso l'opera
interpretativa",  dichiarando  altresi'  "non fondata la questione di
legittimita' costituzionale degli artt. 3, comma 2, del decreto-legge
11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio
idrogeologico  ed  a  favore  delle zone colpite dai disastri franosi
nella  Regione  Campania),  convertito, con modificazioni, in legge 3
agosto 1998, n. 267, e 8, comma 1, lettera d) del decreto legislativo
20  settembre  1999,  n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura
del  programma  di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14
maggio  1981,  n. 219,  e successive modificazioni, a norma dell'art.
42,  comma  6,  della  legge  17  maggio 1999, n. 144), sollevata, in
riferimento  agli  artt.  3,  24, 76, 77 e 97 della Costituzione, dal
Collegio arbitrale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe".
    Pur trattandosi di sentenza cd. "interpretativa di rigetto" - non
determinante  quindi  un  effetto  erga omnes -, il collegio non puo'
ignorare che, sulla base della interpretazione allo stato fornita dal
giudice  delle  leggi, sussiste nell'ordinamento una norma (l'art. 3,
comma  2, del d.l. n. 180/1998 su richiamato) che esclude la potestas
iudicandi  del  Giudice  arbitrale  sulle "controversie relative alle
opere  pubbliche  comprese  in  tutti i programmi di ricostruzione di
territori colpiti da calamita' naturali" (cfr. sentenza n. 376/2001),
attinenti  quindi  anche  alle  opere pubbliche promosse ai sensi del
titolo  VIII  della  legge  14  maggio  1981,  n. 219,  e  successive
modificazioni,  qual  e'  quella  sulla  quale  esso  e'  chiamato  a
decidere.
    Nella sentenza n. 376/2001 la Corte costituzionale si e' espressa
sulla  q.l.c. sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77 e 97
della  Carta,  da  un  collegio  arbitrale  costituito  ai fini della
risoluzione  di  una  controversia  attinente  alla  realizzazione di
un'opera pubblica ex titolo VIII della legge n. 219/1981, che aveva -
tra l'altro - dubitato della riferibilita' della normativa sospettata
a  controversie  attinenti  ad opere aventi titolo su detta legge, in
quanto non solo lex specialis, ma anche perche' il citato titolo VIII
attiene  non  a  "programmi  di ricostruzione di territori colpiti da
calamita' naturali" (questo il dettato della norma recante il divieto
di   affidamento   ad   arbitri   delle  controversie),  bensi'  alla
realizzazione  di un programma straordinario di edilizia residenziale
nell'area metropolitana di Napoli.
    Tale  norma  riveste  dunque  carattere  essenziale anche ai fini
della  decisione  del  giudizio  arbitrale, investendo addirittura il
potere di decidere del collegio stesso.
    VI. - Sulla    rilevanza    della   questione   di   legittimita'
costituzionale  -  Il  collegio  arbitrale  ritiene  rilevante per il
giudizio  la  questione dell'applicabilita' della normativa di cui al
combinato  disposto  degli artt. 3, comma 2, del d.l. 11 giugno 1998,
n. 180  ("Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico
ed  a  favore  delle  zone colpite dai disastri franosi nella Regione
Campania")  -  convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 1998,
n. 267  -,  e  8,  comma  1,  lettera  d)  del decreto legislativo 20
settembre  1999, n. 354 ("Disposizioni per la definitiva chiusura del
programma  di  ricostruzione  di  cui  al  titolo VIII della legge 14
maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'art 42,
comma  6, della legge 17 maggio 1999, n. 144"), in quanto l'eventuale
applicabilita'  del  medesimo  escluderebbe la potestas iudicandi del
collegio sui quesiti rivoltigli.
    Come  ben  precisato  nella  ordinanza di rimessione del collegio
arbitrale  che  ha  incardinato  il giudizio concluso con la sentenza
n. 376/2001,  il  d.l.  11 giugno 1998, n. 180, convertito in legge 3
agosto  1998,  n. 267,  al  II comma  dell'art.  3  prevede  che  "le
controversie  relative  all'esecuzione di opere pubbliche comprese in
programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali
non  possono essere devolute a collegi arbitrali". Successivamente al
d.l.  n. 180/1998,  nella materia e' intervenuto il d.lgs. n. 354 del
20  settembre  1999,  recante disposizioni per la definitiva chiusura
del  programma  di  ricostruzione  di  cui al titolo VIII della legge
n. 219/1981.
    Secondo    un'interpretazione   giurisprudenziale,   la   lettera
dell'art.  8,  comma  1,  lett.  d)  di  tale  decreto  legislativo -
prevedendo  che  il  commissario  straordinario  nel  procedere  alla
ricognizione  del  contenzioso  in  essere  ai fini della definizione
transattiva, prenda in esame "i giudizi ordinari o arbitrali in corso
o  le  istanze di accesso ad arbitrato notificate prima della data di
entrata  in  vigore  del  decreto-legge  11  giugno  1998,  n. 180" -
consentirebbe  di  ritenere  confermata  l'estensione  del divieto di
ricorribilita'  al  giudice arbitrale anche per controversie relative
ad opere pubbliche promosse ai sensi della legge n. 219/1981.
    Tale  formulazione  legislativa  -  se  letta  nel  senso  appena
descritto - non pare consentire ampi spazi interpretativi, affermando
che  le  istanze  di  accesso  arbitrale notificate dopo l'entrata in
vigore  del  d.l.  n. 180/1998  non  rientrano fra i giudizi in corso
valutati  ai  fini  della transazione (evidentemente in ragione della
clausola impeditiva di arbitrati in quest'ultimo contenuta).
    Sussiste  dunque  nell'ordinamento  una  norma  che, ove ritenuta
conforme a Costituzione, costituisce un insuperabile impedimento alla
decisione del presente giudizio da parte di questo collegio arbitrale
in  ordine  alle  domande  proposte  dal Consorzio CPR2 con l'atto di
accesso  notificato  il 15 novembre 1999 e successivamente precisate,
attinenti  al  rapporto  concessorio  ex  lege  n. 219/1981  relativo
all'opera di cui in epigrafe.
    Pertanto,  la  normativa della cui legittimita' si dubita risulta
applicabile  nella situazione de qua ed e' impeditiva della pronuncia
arbitrale sulle richieste avanzate nell'atto di accesso.
    VII. - Sulla   non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  -  Il  collegio  arbitrale dubita della
legittimita'  costituzionale  della  normativa  di  cui  al combinato
disposto  degli  artt.  3,  comma  2, del d.l. 11 giugno 1998, n. 180
("Misure  urgenti  per  la prevenzione del rischio idrogeologico ed a
favore   delle  zone  colpite  dai  disastri  franosi  nella  Regione
Campania")  -  convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 1998,
n. 267  -,  e  8,  comma  1,  lettera  d)  del decreto legislativo 20
settembre  1999, n. 354 ("Disposizioni per la definitiva chiusura del
programma  di  ricostruzione  di  cui  al  titolo VIII della legge 14
maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni a norma dell'art. 42,
comma  6, della legge 17 maggio 1999, n. 144"), sotto profili diversi
rispetto  a  quelli  gia'  oggetto  di pronuncia da parte della Corte
costituzionale.
    Alla  luce della sentenza della Corte costituzionale n. 376/2001,
il collegio ritiene sussistente la propria legittimazione a sollevare
la  q.l.c.;  sul  punto,  non  considera  pertanto necessario offrire
ulteriori argomentazioni.
    Esso,   pur  conscio  della  non  vincolativita'  della  sentenza
interpretativa  di  rigetto,  ha  tuttavia  valutato  di  non potersi
esimere  dal  sottoporre  nuovamente ad esame di costituzionalita' la
normativa citata.
    Osserva  al  riguardo il collegio che la Cassazione in situazione
analoga  ha  ritenuto  che  "sebbene  la  sentenza  interpretativa di
rigetto  della  Corte costituzionale non sia munita di efficacia erga
omnes,  facendo  essa  sorgere un vincolo solo nel giudizio a quo, il
giudice   che,   in   un   diverso   giudizio,   intenda  discostarsi
dall'interpretazione  proposta  nella  sentenza costituzionale non ha
altra  alternativa che quella di sollevare ulteriormente la questione
di  legittimita', non potendo mai assegnare alla formula normativa un
significato  ritenuto  incompatibile  con  la Costituzione" (Sez. un.
penali, 13 luglio 1998, n. 21).
    Peraltro,   la  stessa  Corte  di  legittimita'  ha  riconosciuto
addirittura il diritto per lo stesso giudice a quo di ripresentare la
q.l.c.  dopo  una sentenza interpretativa di rigetto: cfr. Cassazione
civile  sez.  I,  21 luglio 1995, n. 7950, per la quale "il giudice a
quo resta libero di riproporre la stessa interpretazione posta a base
dell'ordinanza  di  rimessione e rifiutata dalla Corte costituzionale
con  la  sentenza interpretativa di rigetto, allorche' la Corte abbia
respinto  l'interpretazione  dell'autorita'  rimettente  in  base  ad
argomenti  puramente  ermeneutici,  senza  presupporre, o addirittura
escludendo  l'incostituzionalita' della disposizione denunciata nella
esegesi del giudice a quo".
    Si  procede  pertanto  ad  illustrare  le ragioni per le quali il
collegio  ritiene  la  non  manifesta infondatezza della questione di
legittimita'  costituzionale  sollevata nei confronti dell'art. 3, 2o
comma,  del  decreto-legge  11  giugno 1998,  n. 1811, convertito con
modificazioni  nella  legge  3 agosto 1995, n. 267, e dell'art. 8, 1o
comma,  lett.  d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354,
per violazione degli artt. 3, 24, 25, 41, 76 e 77 della Costituzione.
    VIII-a. - Il  collegio  rileva che la normativa richiamata, letta
nel  senso  impeditivo  di  qualsiasi  potestas  iudicandi  in capo a
giudici  arbitrali,  implicherebbe  l'affermazione  del  potere della
legge  di  incidere con effetti retroattivi su contratti (le clausole
compromissorie)   legittimi   e   validi   al   momento   della  loro
stipulazione.
    Nell'ordinamento vigente, fattore genetico del giudizio arbitrale
e'  la  volonta' dei privati, che si puo' concretare nelle due figure
distinte  del  compromesso  (art.  806-807  c.p.c.)  o della clausola
compromissoria (art. 808 c.p.c.).
    Secondo  la  dottrina  piu' autorevole, trattasi di due contratti
tout  court  - come giustamente nota il Verde, Diritto dell'arbitrato
rituale (Torino 1997) p. 37, anche il considerarlo invece "un accordo
derivante dalla confluenza di manifestazioni unilaterali di volonta'"
non  determinerebbe  ripercussioni di rilievo, atteso che l'art. 1324
c.c.  prevede  l'applicabilita' agli atti unilaterali delle norme che
regolano  i  contratti  -, per i quali, pur riconoscendo tale natura,
sono  state coniate diverse definizioni: "contratto avente ad oggetto
non   il   diritto  sostanziale  controverso,  ma  la  scelta  di  un
particolare  mezzo  per  conseguire  la  tutela  giurisdizionale  del
diritto"  (Vecchione, L'arbitrato nel sistema del processo civile, II
ed.,  Milano  1971,  p.  192); "contratto avente effetti processuali"
(Schizzerotto, Dell'arbitrato, II ed. Milano 1982, p. 49; definizione
sostanzialmente  accolta  anche  piu' di recente: Ferronato, Rebecca,
Manuale  dell'arbitrato, Il ed., Milano 1994, p. 107). Ne' pare possa
dimenticarsi la lezione del Satta (Commentario al codice di procedura
civile,  vol.  IV, tomo 2o, Milano 1971, p. 190), il quale, ricordata
la  nozione  della  dottrina  processualistica  tedesca di "contratto
processuale"    (da   lui   considerata   inaccettabile),   giudicava
addirittura  troppo angusti i limiti del contratto per racchiudere la
figura del compromesso, il quale si sostanzierebbe nella possibilita'
riconosciuta  dalla  legge  al  privato  di comporre una controversia
attraverso  la determinazione di un ordinamento che non e' quello del
giudice ma quello del privato.
    La  individualita' dell'accordo compromissorio quale contratto, e
per  di  piu' contratto autonomo rispetto a quello cui inerisce, puo'
quindi oggi affermarsi senza ombra di dubbio.
    Di  recente  hanno  trovato  il  proprio riconoscimento normativo
nell'art.  808,  ultimo  comma,  c.p.c.,  anche  le  osservazioni del
Carnelutti  (Clausola  compromissoria  e  competenza degli arbitri in
Riv.  dir.  comm.  1921,  p. 327 ss.),  gia' ampiamente condivise nel
tempo   dalla   giurisprudenza:   a   seguito   della   cd.   riforma
dell'arbitrato  (legge  n. 25  del 5 gennaio 1994), per dirimere ogni
possibile  controversia,  tale disposizione ora espressamente prevede
che  "la  validita' della clausola compromissoria deve esser valutata
in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce".
    In quest'ottica, va dunque riaffermata non solo l'autonomia della
figura  contrattuale  della "convenzione di arbitrato" (nozione nella
quale il Verde, op. loc. cit., fa rientrare sia il compromesso che la
clausola compromissoria) rispetto al contratto cui inerisce, ma anche
rispetto  al  negozio accessorio rappresentato dall'atto con il quale
ciascuna  parte  sceglie  il  proprio arbitro, indicando i quesiti ai
quali  intende  chiedere  una  risposta  giuridicamente vincolante al
collegio  il  cui  potere  decisionale aveva gia' radicato al momento
della  sottoscrizione  della  convenzione  di arbitrato. Tale negozio
accessorio (usualmente denominato "domanda di arbitrato") puo' quindi
esser   correttamente   definito  quale  "atto  di  integrazione  del
precedente negozio volto all'integrazione dello stesso, e, come tale,
surrogabile dall'intervento del magistrato" (Verde, op. cit., p. 38).
    La  volizione  privata idonea a legittimare il ricorso ad arbitri
per una decisione giuridicamente vincolante su una res controversa va
dunque  considerata  quale  contratto,  che, come tale, soggiace alle
note regole interpretative di cui agli artt. 1362 ss. C.c.
    La  validita'  della clausola compromissoria deve essere valutata
in  relazione  alla sussistenza, al momento della sua sottoscrizione,
delle condizioni richieste dall'ordinamento per la sua legittimita'.
    Il divieto contenuto nel d.l. n. 180/1998 implicherebbe invece un
divieto  con  effetti  retroattivi  che  pone  -  a  parere di questo
collegio - rilevanti problemi di compatibilita' con principi generali
dell'ordinamento, quali appunto quello opposto della irretroattivita'
della   legge   (art.   11   delle   preleggi),  nonche'  quello  del
riconoscimento del carattere vincolante degli impegni assunti in sede
di  autonomia negoziale delle parti, quest'ultimo elevato al rango di
principio  di  livello  costituzionale  dall'art. 41, comma 1, Cost.,
allorche'  queste  abbiano  gia'  espresso,  come  e'  avvenuto nella
materia   in   esame,  la  volonta'  di  devolvere  ad  arbitri  ogni
controversia.  In  tal  caso, la legge inciderebbe sul fatto o l'atto
generatore  del  rapporto,  nella  specie la clausola compromissoria,
eliminandone  gli effetti, sia attuali che futuri (Cass. n. 271/1973,
n. 1156/1966  e  n. 6697/1975;  Cons.  Stato  n. 895/1974), ponendosi
palesemente in contrasto con il principio della certezza del diritto,
certamente  vulnerato da una disposizione che elimini successivamente
gli  effetti  di un rapporto negoziale gia' sorto e pienamente valido
ed efficace.
    La  norma  in  esame  appare  quindi  in contrasto non solo con i
suddetti  principi  generali  dell'ordinamento,  ma  anche con canoni
costituzionali, quale il principio del giudice naturale precostituito
per  legge  (art.  25), quello delle parita' di trattamento (art. 3),
quello  incidente  sull'autonomia  contrattuale  (art.  41, comma 1),
introducendo  la  legge,  in  modo  irragionevole,  una diversita' di
regime   nei  confronti  di  clausole  compromissorie  stipulate  nel
medesimo  tempo  ed  in  base ad una stessa disposizione di legge (si
pensi,  per  quanto  rileva  nel presente giudizio, all'art. 16 legge
n. 219/1981).
    In  altri  termini,  l'atto  d'imperio  normativo  che,  operando
retroattivamente,  destituisca  di  efficacia  un  negozio nato nella
vigenza di una diversa normativa, viene a turbare non solo l'ordinato
svolgimento delle relazioni economico-sociali su di esso fondate, con
gravissimo  attentato al principio di certezza e della stabilita' dei
rapporti   giuridici   gia'   costituiti,   ma   anche   i   principi
costituzionali richiamati.
    Tertium non datur. O si ritiene:
        a) che  il  divieto  di  cui  al  d.l.  n. 180/1998 non abbia
l'efficacia   di   incidere  sulle  convenzioni  arbitrali  valide  e
legittime  al momento della loro sottoscrizione, e dunque ad esso non
potrebbe  riconoscersi  il potere di far considerare nulle le domande
di  arbitrato  proposte  sulla base di clausole compromissorie ancora
valide  (in  altre  parole,  attesa  la  natura di atto negoziale che
riveste  la  clausola  compromissoria,  appare  evidente  come la sua
validita'  o  invalidita'  per  contrarieta' a norma imperativa debba
valutarsi  con  riguardo al sistema legislativo vigente al momento in
cui  essa  fu  formata,  sulla  base  del noto principio tempus regit
actum);
oppure si ritiene:
        b) che  tale  norma,  in  via  eccezionale,  e  con efficacia
generale  (in  ordine alla quale qualche dubbio suscita, tra l'altro,
anche   la   sedes   materiae)   abbia  abrogato/annullato  tutte  le
convenzioni  arbitrali  relative  a  "programmi  di  ricostruzione di
territori    colpiti    da    calamita'    naturali",    sottoscritte
precedentemente  alla  entrata  in  vigore  della  legge, in tal modo
ledendo tuttavia non solo i noti e richiamati principi ermeneutici di
interpretazione  contrattuale  e di successione/efficacia delle leggi
nel  tempo, ma anche gli indicati articoli della Carta costituzionale
(art. 3, 25, 41 comma 1, 76 e 77).
        b. Una  soluzione  intermedia - che e' stata gia' prospettata
in   giurisprudenza:   cfr.  sentenza  Corte  di  appello  di  Napoli
n. 1940/2001 - immagina di poter superare l'impasse affermando che la
norma  sospettata  avrebbe  inciso  non sulle clausole compromissorie
inserite nelle convenzioni di concessione ex lege n. 219/1981, bensi'
soltanto   sulla  proponibilita'  e  legittimita'  delle  domande  di
arbitrato successive all'entrata in vigore della norma.
    Il collegio tuttavia ritiene di non poter condividere tale tesi.
    Innanzi tutto, in quanto non puo' ammettersi l'utilizzo impreciso
e  atecnico  da  parte  del legislatore del termine "devoluzione" (la
norma  sospetta  prescrive che "non possono essere devolute a collegi
arbitrali"),  che  notoriamente  ha  il  significato  di  radicare la
competenza  del  giudice  non al momento della effettiva proposizione
della domanda di giustizia, bensi' a quello anteriore in cui la legge
o  l'accordo  delle  parti  (clausola  compromissoria)  individua  il
giudice della insorgenda controversia.
    La  conferma  di tale corretta interpretazione - che non consente
di  condividere  l'affermazione  della  Corte di appello napoletana -
deriva  da  numerose  norme  di legge: per limitare l'analisi al solo
codice  di  rito,  cfr.  artt. 50-bis,  n. 3;  669-octies,  comma  4;
669-novies, comma 4; 669-decies, comma 2.
    In  altre  parole, la corretta lettura del termine utilizzato dal
legislatore  non  ammette  di  ritenere  che il divieto ivi contenuto
riguardi  soltanto  il  momento  successivo  della proposizione delle
domande  di arbitrato, e non la preventiva individuazione del giudice
competente, merce' (nella fattispecie) clausola compromissoria.
    Inoltre,  vale  la  pena  di  osservare come tale rilievo risulti
confermato dal fatto che il legislatore, quando ha inteso individuare
le   materie  che  non  possono  formare  oggetto  di  arbitrato,  ha
correttamente  fatto  riferimento  al  compromesso,  e  non  all'atto
successivo  della  domanda  di  arbitrato  (cfr.  art.  808  C.p.c.),
fissando le materie non "compromettibili".
    In  ogni  caso, la prospettata ipotesi interpretativa - ove se ne
ammettesse  la  fondatezza - finirebbe con il violare altro principio
costituzionale,  quello  di  cui  all'art.  41,  comma  1,  il  quale
garantisce l'autonomia privata.
    La imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento della
autonomia  contrattuale,  come  la  modificazione e l'eliminazione di
clausole  di contratto, e' ammissibile quando esse siano contrastanti
con  l'utilita'  sociale;  l'autonomia  contrattuale  deve  cedere di
fronte a motivi di ordine superiore, economico e sociale, considerati
rilevanti  dalla  Costituzione  (cfr. Galgano, Il diritto privato fra
codice  e  costituzione,  Bologna  1978, p. 125). La mancanza di tali
motivi  "di ordine superiore" - che non si ritiene possano rinvenirsi
in  un  apodittico  interesse  al  rapido  esito  delle  controversie
attinenti  ad  opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione
di  territori  colpiti da calamita' naturali, in quanto lo stesso non
sarebbe  certo  garantito  dalla  esclusione  degli arbitrati; ne' in
ragione  dell'elevato  assunto valore delle relative controversie, in
quanto  non  solo  la  norma  sospetta  non  pone  limite  di  valore
economico, ma anche perche' controversie di valore anche maggiore non
subiscono  lo  stesso  divieto  (si pensi che le controversie facenti
capo  all'ex  Ministero  LL.PP., ora Ministero delle infrastrutture e
dei  trasporti,  ammontano  a  circa  lire  3.000 Mld., mentre quelle
attinenti  all'esecuzione  di  opere ex lege n. 219/1981 a circa lire
600    Mld.:   fonti   Ministero   infrastrutture   e   Commissariato
straordinario  di  governo); ne' in un disfavore dell'ordinamento per
gli arbitrati: ma sul punto cfr. infra sub d. - fa quindi ritenere la
norma in violazione dell'art. 41, comma 1, Cost.
        c. Non   puo'   essere   dimenticato  poi  che  la  norma  in
discussione  incide su temi di rilievo soprattutto processuale, e non
sostanziale,  che devono essere interpretati nel quadro ordinamentale
che   emerge   dalla   stessa  sentenza  della  Corte  costituzionale
n. 376/2001,  nella parte in cui afferma che "l'arbitrato costituisce
un  procedimento  previsto  e  disciplinato  dal  codice di procedura
civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai
fini  della  risoluzione  di  una  controversia,  con  le garanzie di
contraddittorio e di imparzialita' tipiche della giurisdizione civile
ordinaria.  Sotto l'aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si
differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della
giurisdizione".
    Essa  precisa  poi  che  il giudizio arbitrale "e' potenzialmente
fungibile con quello degli organi della giurisdizione".
    Il  collegio  ritiene  che l'effettuata equiparazione del giudice
arbitrale agli organi della giurisdizione ordinaria possa determinare
conseguenze  anche  sotto un profilo costituzionale, rilevante per la
questione in esame.
      Il  collegio  dubita cioe' che la norma sospettata, che avrebbe
inciso  sulla  validita'  delle  clausole  compromissorie, possa aver
determinato  una  violazione della norma di cui all'art. 25 Cost., in
quanto  essa  distoglie  ex  post  le parti dal loro giudice naturale
precostituito secundum legem, da intendersi quale quello che essi si'
erano   legittimamente  precostituito  con  atto  lecito  di  sovrana
autonomia,   previsto,  garantito  e  disciplinato  dalla  legge  (la
clausola compromissoria).
    Il   collegio   conosce  la  giurisprudenza  consolidata  che  ha
considerato "la competenza arbitrale come derogatoria alla competenza
del  giudice  naturale"  (cfr. Cass. n. 12175/2000, n. 5717/1998), ma
ritiene che la sentenza della Corte costituzionale n. 376/2001, nella
sua  ampiezza  di argomentazioni convergenti, porta ad acquisire alla
definizione   di   giudice   naturale  anche  quello  arbitrale,  non
rinvenendosi allo stato motivi ostativi a tale conclusione.
    Tale  opinione  e' confermata dal fatto che l'art. 23 della legge
n. 87   dell'11   marzo   1953   ("Norme  sulla  costituzione  e  sul
funzionamento   della   Corte   costituzionale")   fa   esplicito  ed
inequivocabile  riferimento ad una "autorita' giurisdizionale" (comma
1), innanzi alla quale nel corso del giudizio puo' esser sollevata la
q.l.c.  in  via  incidentale,  e  che  la medesima norma ribadisce lo
stesso  termine  specificando  (comma  4)  che  la q.l.c. puo' essere
sollevata  anche  "di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti
alla quale verte il giudizio".
    Potendo   esser  sollevata  la  q.l.c.  incidentale  soltanto  da
un'autorita'   giurisdizionale,   ed   essendo   stata  affermata  la
legittimazione  degli  arbitri  rituali a sollevare la q.l.c., appare
evidente  che tale natura non possa non esser riconosciuta ai collegi
arbitrali rituali a seguito della sentenza n. 376/2001.
    Ne'  pare possa condurre ad una discriminazione nei confronti dei
collegi  arbitrali  il  collegamento rinvenibile tra l'art. 25, primo
comma,  Cost.,  e  l'art.  102,  primo comma, Cost., per il quale "la
funzione   giurisdizionale   e'  esercitata  da  magistrati  ordinari
istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario".
    E'  noto,  difatti,  che  la  stessa  giurisprudenza  della Corte
costituzionale  ha  nel  tempo  riconosciuto  la  natura  di funzione
giurisdizionale  anche  ad  organi  che  sono chiaramente al di fuori
dell'ordinamento  giudiziario,  inteso nel senso di cui all'art. 102,
primo comma, Cost.
    Basti   ricordare   al   proposito   le  sentenze  relative  alla
legittimazione   a   sollevare   la  q.l.c.  da  parte  degli  ordini
professionali  (n.  189/2001,  n. 284/1986),  nelle  quali  la natura
giurisdizionale  "viene  desunta principalmente dal fatto che avverso
le  decisioni  dei  consigli,  inerenti  alle  attribuzioni  suddette
(materia   disciplinare   e  iscrizione  all'albo),  e'  direttamente
previsto  il  ricorso  per Cassazione, il quale nel nostro sistema e'
diretto  al  controllo  su  provvedimenti  di natura giurisdizionale"
(cosi'  la  citata sentenza n. 284/1986, la quale richiama a conforto
anche  la  pregressa  giurisprudenza della stessa Corte: n. 110/1967,
n. 114/1970, n. 27/1972, n. 175/1980).
    In  aggiunta,  il  Collegio  ritiene che la interpretazione della
norma  di  cui all'art. 102, primo comma, della Costituzione vada ora
integrata con l'art. 111 Cost., nel testo novellato dall'art. 1 della
legge  costituzionale  n. 2/1999.  In  particolare, i primi due commi
dell'art.  111  stabiliscono ora: "La giurisdizione si attua mediante
il  giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel
contraddittorio  tra  le  parti,  in condizioni di parita', davanti a
giudice terzo e imparziale".
    La   lettura   combinata   delle  due  disposizioni  consente  di
confermare  la  gia'  consolidata  opinione  della Corte, la quale ha
ritenuto  di  poter  estendere  l'ambito  dei  soggetti legittimati a
sollevare  la  q.l.c.  in  via  incidentale sulla scorta della stessa
interpretazione  di  cui  alla appena citata sentenza n. 284/1986. In
particolare,  per quanto qui interessa, il procedimento innanzi ad un
collegio  arbitrale  rituale  gode di tutti i presupposti ed elementi
del  "giusto  processo"  individuati  dall'art. 111 Cost., e pertanto
rispetta  a  pieno  titolo  i principi della giurisdizione nel quadro
costituzionale.
    Alla  luce  di questi presupposti, ritenuta la configurazione del
procedimento  innanzi  a  collegio  arbitrale  rituale quale giudizio
innanzi  ad autorita' giurisdizionale legittimata a sollevare q.l.c.,
constatato   che  l'efficacia  delle  clausole  compromissorie  nella
regolamentazione  di interessi di natura privatistica quali contratti
idonei   ad   individuare  ex  ante  il  giudice  competente  per  la
risoluzione  di  eventuali  controversie  inter partes discende dalla
legge,   questo  collegio  -  pur  consapevole  della  novita'  della
prospettazione  -  non  ravvede  ostacolo nel considerare il collegio
arbitrale  quale  giudice  naturale delle parti che ad esso risultino
vincolate  da  una clausola compromissoria che non infranga i divieti
di  cui  all'art.  806  c.p.c.,  o un qualsiasi altro divieto purche'
precedente alla sottoscrizione della clausola compromissoria.
    Sulla   base   di   tale   inquadramento,  risulta  evidente  che
l'annullamento ex post delle clausole che, secondo la legge, radicano
la   competenza   del   giudice   arbitrale  per  la  risoluzione  di
controversie  tra  privati  (come  risulterebbe  dall'interpretazione
giurisprudenziale della norma sospettata), determina un chiaro vulnus
al  richiamato  principio  di precostituzione del giudice naturale di
cui all'art. 25 Cost.
    Al  riguardo,  la  Corte costituzionale ha avuto modo di prendere
una   netta   posizione   sin   dal   1963   (sentenza   n. 2),  ove,
nell'evidenziare la maggiore rilevanza della precostituzione rispetto
alla  individuazione del singolo giudice, ha affermato che "l'art. 25
Cost. vieta di imporre la competenza di un giudice non precostituito,
e  quindi  di  interdire il ricorso al giudice istituito, ma non pone
limitazioni  al  potere  soggettivo  di  scegliere  fra  piu' giudici
egualmente competenti secondo l'ordinamento generale".
    Piu'  di  recente,  con  ordinanza  n. 176 del 20 maggio 1998, lo
stesso  giudice  delle  leggi  ha  avuto  modo  di  precisare che "il
principio  della  precostituzione  per  legge del giudice naturale e'
leso  soltanto quando il giudice e' designato in modo arbitrario e "a
posteriori  oppure  direttamente  dal legislatore in via di eccezione
singolare alle regole generali, ovvero attraverso atti di soggetti ai
quali  sia  attribuito il relativo potere in violazione della riserva
assoluta di legge stabilita dall'art. 25, comma 1 Cost., ma non anche
qualora  l'identificazione  del  giudice competente sia operata dalla
legge  sulla  scorta  di  criteri dettati preventivamente, oppure con
riferimento  ad elementi oggettivi capaci di costituire un "discrimen
della   competenza   o   della   giurisdizione   dei  diversi  organi
giudicanti".
    Sulla scorta di tale affermazione, il collegio ritiene sussistere
il  dubbio  di costituzionalita' della norma di cui all'art. 3, comma
2,   del  d.l.  n. 180/1998,  sotto  il  duplice  profilo  sia  della
designazione  del  giudice  "a  posteriori"  (che risulta in re ipsa,
dovendo  esso essere individuato sulla base di una norma successiva),
sia della "eccezione singolare alle regole generali".
    Sotto  questo  ultimo  aspetto,  va  osservato  che  in  tema  di
realizzazione  di  opere pubbliche non si rinvengono nell'ordinamento
regole   generali  che  dispongano  divieti  alla  devoluzione  delle
controversie a collegi arbitrali.
    Anzi,  l'opzione  arbitrale in materia di opere pubbliche risulta
essere   espressamente   consentita   dall'art.  31-bis  della  legge
n. 109/1994. Essa e' inoltre espressamente ammessa anche dall'art. 6,
comma  2,  della  legge  n. 205/2000,  in  materia  di  giurisdizione
amministrativa.  La  regola  generale  e'  dunque  da rinvenire nella
liberta'  e  autonomia  delle parti nella eventuale attivazione della
potesta'  arbitrale,  e  conseguentemente  la  norma  sospettata - in
quanto  sottrae  alle  parti  in  una  materia  specifica  ("opere di
ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali"), peraltro
in modo irragionevole, il potere di far decidere le loro controversie
da collegi arbitrali si pone quale evidente "eccezione singolare alle
regole  generali",  nel  senso  lesivo  del  principio  invocato gia'
rilevato dalla sentenza n. 176/1998.
        d. La  norma  non  pare  sottrarsi  neanche  alla denuncia di
violazione  del  parametro  di  cui  all'art.  3  Cost., con precipuo
riferimento  al  generale  canone di ragionevolezza, e a quello della
disparita' di trattamento per situazioni identiche.
    Appare  difatti  chiaramente  incongruo  ammettere  che  la norma
impeditiva  degli  arbitrati  trovi  il suo giusto spazio anche nelle
disposizioni  aventi ad oggetto la "definitiva chiusura del programma
di  ricostruzione  di  cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981,
n. 219",  considerato  che  una  delle  caratteristiche tipiche e dei
pregi  riconosciuti all'arbitrato e' proprio la maggior celerita' dei
giudizi.
    Viceversa,  secondo  la  norma  sospettata, nella interpretazione
condivisa   dalla   sentenza   n. 376/2001,   tutte  le  controversie
riguardanti  opere  di ricostruzione di qualsiasi calamita' naturale,
dovrebbero  essere affidate alla cognizione del giudice ordinario, la
cui poca celerita' (con il conseguente aggravio di spese e costi, non
solo  sotto  il profilo legale, ma anche sotto quello dell'incremento
delle voci di interessi e rivalutazione) e' fatto notorio.
    Ne'   la   oggettiva  irragionevolezza  potrebbe  esser  superata
considerando  un  preminente interesse pubblico sulla materia, atteso
che  non  si  capirebbe  come  tale  interesse  -  ammesso  che possa
individuarsene   uno  di  tal  genere  -  possa  esser  salvaguardato
impedendo il ricorso al giudizio arbitrale.
    Tale  opzione  interpretativa  si scontra quindi con l'assenza di
"motivi  di  ordine  superiore"  e  comunque  di un preciso interesse
pubblico al divieto di arbitrato in subiecta materia, che sicuramente
non  puo' rinvenirsi nell'elevato valore delle controversie in quanto
risulterebbe allora irragionevole che il legislatore abbia vietato il
ricorso ai giudici arbitri soltanto in una sola specifica materia tra
quelle  che  lasciano  presumere  un  elevato  valore  delle relative
controversie.
    Il  divieto  oggetto della normativa sospettata si scontra invece
con  il  generale  e  sempre  maggiormente  diffuso apprezzamento che
l'arbitrato  riscuote  nel  nostro  ordinamento,  e  anzi col recente
ampliamento  dei  suoi  limiti di applicabilita' (legge n. 205/2000),
donde l'irragionevolezza anche sotto questo specifico profilo.
    Inoltre,  l'art.  3 appare chiaramente leso, sotto il profilo del
generale  principio  di  eguaglianza,  nel  momento  in  cui soggetti
privati  (magari  meno  litigiosi)  si vedono discriminati nella loro
facolta'  di  adire  il  pattuito giudice arbitrale rispetto ad altri
soggetti   che   invece,   sulla   base   della   medesima   clausola
compromissoria,  avessero  gia'  attivato la clausola arbitrale prima
dell'entrata in vigore della norma sospettata.