IL COLLEGIO ARBITRALE Costituito per la risoluzione della controversia insorta tra il Consorzio CPR2, con sede in Napoli alla via Morgantini n. 3, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Domenico di Falco e Gennaro Micillo, presso i quali elettivamente domicilia in Pozzuoli (Napoli) alla via Celle n. 21, e il Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato per la carica presso la casa comunale, rappresentato e difeso dall'avv. Edoardo Barone dell'avvocatura municipale, presso il quale domicilia in Napoli, Palazzo San Giacomo, in relazione alla convenzione per la "concessione della realizzazione del Programma di edilizia residenziale da attuarsi nel comune di Napoli ai sensi del titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219 - Comparto n. 7, Zona di S. Pietro a Patierno, rif. cart. D7-E5" rep. n. 4 del 31 luglio 1981 e successive varianti. Svolgimento del processo I. - Con domanda di arbitrato del 10 novembre 1999, il CPR2, concessionario dei lavori relativi alla costruzione di alloggi ed opere di urbanizzazione primaria e secondaria del Comparto n. 7 (localita' S. Pietro a Patierno) in virtu' di Convenzione del 14 maggio 1981 rep. n. 4, avente come oggetto, tra l'altro, "le procedure di espropriazione ed il pagamento delle indennita'", e di successivi atti aggiuntivi del 7 febbraio 1985 rep. n. 4 e del 15 gennaio 1986 rep. n. 82, dichiarava che successivamente alla stipula della convenzione, nell'espletamento delle procedure espropriative affidategli erano state incontrate maggiori difficolta' non previste ne' prevedibili al momento della stipula della convenzione, e pertanto avanzava richiesta al riconoscimento di maggiori compensi rispetto a quelli contrattualmente previsti e maggiori oneri per ritardi subiti. Con lo stesso atto il CPR2 nominava quale proprio arbitro l'avv. Paolo Di Martino, invitando il comune alla nomina del proprio al fine della costituzione del collegio arbitrale previsto per la risoluzione di eventuali controversie dall'art. 28 della Convenzione. II. - Omessa la nomina da parte del Comune di Napoli, il Presidente del Tribunale di Napoli, con ordinanza ex art. 810 c.p.c. del 27 giugno 2000, nominava quale arbitro del comune l'avv. Gaspare Dalia. Con atto di nomina in data 23 ottobre 2000, i due arbitri nominati designavano quale Presidente del collegio arbitrale l'avv. Giuseppe Di Rienzo. III. - In pari data, avendo il Presidente designato accettato la nomina, si costituiva il collegio arbitrale fissando la propria sede in Napoli, alla via Ventaglieri n. 27 (presso lo studio dell'avv. Di Rienzo) e designando quale segretario del collegio l'avv. Mario Valentino. Venivano quindi assegnati alle parti termini per lo svolgimento del procedimento arbitrale. Le parti, pertanto, provvedevano a depositare memorie e relative repliche. Il CPR2, con la prima memoria del 10 gennaio 2001, depositata il 15 gennaio 2001, rilevava, fra l'altro, l'assoluta infondatezza dell'eccezione (che assumeva gia' allora sollevata dal comune) di improcedibilita' dell'azione in relazione all'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180 dell'11 giugno 1998, convertito in legge n. 267 del 3 agosto 1998, e all'art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 354 del 20 settembre 1999. Una tal eccezione veniva di fatto esplicitata dal comune con la seconda memoria conclusionale del 28 dicembre 2001, con la quale la difesa dell'ente locale richiamava precedenti memorie, e "in particolare modo quelle concernenti la piu' volte contestata improcedibilita' dell'arbitrato ed incompetenza del collegio arbitrale, pienamente fondate alla luce della recente e nota sentenza della Corte costituzionale 22-28 ottobre 2001, n. 376" (recte: 22-28 novembre 2001). IV. - In data 26 marzo 2001 si teneva, presso la sede del Collegio arbitrale, l'udienza di discussione, previo il previsto tentativo di conciliazione e audizione personale delle parti. Il collegio, riservato ogni provvedimento, fissava termini alle parti per il deposito di atto contenente la precisazione delle conclusioni e poi memoria conclusionale. Con successiva ordinanza in data 24 maggio 2001, il collegio decideva di procedere con l'istruttoria, e ammetteva consulenza tecnica di ufficio, designando il C.T.U. e rinviando all'udienza del 12 giugno 2001 per il conferimento dell'incarico. Espletata e depositata la C.T.U., previa concessione dalle parti di proroga del termine per il deposito del lodo, all'udienza di discussione del 10 dicembre 2001 il collegio concedeva ulteriore termine al perito di ufficio per il deposito di relazione di chiarimenti, e contestualmente alle parti di memoria conclusionale, fissando altresi' la data dell'udienza di discussione. All'udienza di discussione dell'8 gennaio 2002, il Collegio si riservava. V. - Il collegio, riunito in conferenza riservata, ha preso atto della sentenza della Corte costituzionale n. 376 del 28 novembre 2001, con la quale la Consulta ha affermato che "gli arbitri rituali possono e debbono sollevare incidentalmente questione di legittimita' costituzionale delle norme di legge che sono chiamati ad applicare, quando risulti impossibile superare il dubbio attraverso l'opera interpretativa", dichiarando altresi' "non fondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite dai disastri franosi nella Regione Campania), convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 1998, n. 267, e 8, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'art. 42, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77 e 97 della Costituzione, dal Collegio arbitrale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe". Pur trattandosi di sentenza cd. "interpretativa di rigetto" - non determinante quindi un effetto erga omnes -, il collegio non puo' ignorare che, sulla base della interpretazione allo stato fornita dal giudice delle leggi, sussiste nell'ordinamento una norma (l'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180/1998 su richiamato) che esclude la potestas iudicandi del Giudice arbitrale sulle "controversie relative alle opere pubbliche comprese in tutti i programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali" (cfr. sentenza n. 376/2001), attinenti quindi anche alle opere pubbliche promosse ai sensi del titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, qual e' quella sulla quale esso e' chiamato a decidere. Nella sentenza n. 376/2001 la Corte costituzionale si e' espressa sulla q.l.c. sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77 e 97 della Carta, da un collegio arbitrale costituito ai fini della risoluzione di una controversia attinente alla realizzazione di un'opera pubblica ex titolo VIII della legge n. 219/1981, che aveva - tra l'altro - dubitato della riferibilita' della normativa sospettata a controversie attinenti ad opere aventi titolo su detta legge, in quanto non solo lex specialis, ma anche perche' il citato titolo VIII attiene non a "programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali" (questo il dettato della norma recante il divieto di affidamento ad arbitri delle controversie), bensi' alla realizzazione di un programma straordinario di edilizia residenziale nell'area metropolitana di Napoli. Tale norma riveste dunque carattere essenziale anche ai fini della decisione del giudizio arbitrale, investendo addirittura il potere di decidere del collegio stesso. VI. - Sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale - Il collegio arbitrale ritiene rilevante per il giudizio la questione dell'applicabilita' della normativa di cui al combinato disposto degli artt. 3, comma 2, del d.l. 11 giugno 1998, n. 180 ("Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite dai disastri franosi nella Regione Campania") - convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 1998, n. 267 -, e 8, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 ("Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'art 42, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144"), in quanto l'eventuale applicabilita' del medesimo escluderebbe la potestas iudicandi del collegio sui quesiti rivoltigli. Come ben precisato nella ordinanza di rimessione del collegio arbitrale che ha incardinato il giudizio concluso con la sentenza n. 376/2001, il d.l. 11 giugno 1998, n. 180, convertito in legge 3 agosto 1998, n. 267, al II comma dell'art. 3 prevede che "le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a collegi arbitrali". Successivamente al d.l. n. 180/1998, nella materia e' intervenuto il d.lgs. n. 354 del 20 settembre 1999, recante disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981. Secondo un'interpretazione giurisprudenziale, la lettera dell'art. 8, comma 1, lett. d) di tale decreto legislativo - prevedendo che il commissario straordinario nel procedere alla ricognizione del contenzioso in essere ai fini della definizione transattiva, prenda in esame "i giudizi ordinari o arbitrali in corso o le istanze di accesso ad arbitrato notificate prima della data di entrata in vigore del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180" - consentirebbe di ritenere confermata l'estensione del divieto di ricorribilita' al giudice arbitrale anche per controversie relative ad opere pubbliche promosse ai sensi della legge n. 219/1981. Tale formulazione legislativa - se letta nel senso appena descritto - non pare consentire ampi spazi interpretativi, affermando che le istanze di accesso arbitrale notificate dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 180/1998 non rientrano fra i giudizi in corso valutati ai fini della transazione (evidentemente in ragione della clausola impeditiva di arbitrati in quest'ultimo contenuta). Sussiste dunque nell'ordinamento una norma che, ove ritenuta conforme a Costituzione, costituisce un insuperabile impedimento alla decisione del presente giudizio da parte di questo collegio arbitrale in ordine alle domande proposte dal Consorzio CPR2 con l'atto di accesso notificato il 15 novembre 1999 e successivamente precisate, attinenti al rapporto concessorio ex lege n. 219/1981 relativo all'opera di cui in epigrafe. Pertanto, la normativa della cui legittimita' si dubita risulta applicabile nella situazione de qua ed e' impeditiva della pronuncia arbitrale sulle richieste avanzate nell'atto di accesso. VII. - Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale - Il collegio arbitrale dubita della legittimita' costituzionale della normativa di cui al combinato disposto degli artt. 3, comma 2, del d.l. 11 giugno 1998, n. 180 ("Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite dai disastri franosi nella Regione Campania") - convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 1998, n. 267 -, e 8, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 ("Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni a norma dell'art. 42, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144"), sotto profili diversi rispetto a quelli gia' oggetto di pronuncia da parte della Corte costituzionale. Alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 376/2001, il collegio ritiene sussistente la propria legittimazione a sollevare la q.l.c.; sul punto, non considera pertanto necessario offrire ulteriori argomentazioni. Esso, pur conscio della non vincolativita' della sentenza interpretativa di rigetto, ha tuttavia valutato di non potersi esimere dal sottoporre nuovamente ad esame di costituzionalita' la normativa citata. Osserva al riguardo il collegio che la Cassazione in situazione analoga ha ritenuto che "sebbene la sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale non sia munita di efficacia erga omnes, facendo essa sorgere un vincolo solo nel giudizio a quo, il giudice che, in un diverso giudizio, intenda discostarsi dall'interpretazione proposta nella sentenza costituzionale non ha altra alternativa che quella di sollevare ulteriormente la questione di legittimita', non potendo mai assegnare alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile con la Costituzione" (Sez. un. penali, 13 luglio 1998, n. 21). Peraltro, la stessa Corte di legittimita' ha riconosciuto addirittura il diritto per lo stesso giudice a quo di ripresentare la q.l.c. dopo una sentenza interpretativa di rigetto: cfr. Cassazione civile sez. I, 21 luglio 1995, n. 7950, per la quale "il giudice a quo resta libero di riproporre la stessa interpretazione posta a base dell'ordinanza di rimessione e rifiutata dalla Corte costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto, allorche' la Corte abbia respinto l'interpretazione dell'autorita' rimettente in base ad argomenti puramente ermeneutici, senza presupporre, o addirittura escludendo l'incostituzionalita' della disposizione denunciata nella esegesi del giudice a quo". Si procede pertanto ad illustrare le ragioni per le quali il collegio ritiene la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata nei confronti dell'art. 3, 2o comma, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 1811, convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 1995, n. 267, e dell'art. 8, 1o comma, lett. d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 41, 76 e 77 della Costituzione. VIII-a. - Il collegio rileva che la normativa richiamata, letta nel senso impeditivo di qualsiasi potestas iudicandi in capo a giudici arbitrali, implicherebbe l'affermazione del potere della legge di incidere con effetti retroattivi su contratti (le clausole compromissorie) legittimi e validi al momento della loro stipulazione. Nell'ordinamento vigente, fattore genetico del giudizio arbitrale e' la volonta' dei privati, che si puo' concretare nelle due figure distinte del compromesso (art. 806-807 c.p.c.) o della clausola compromissoria (art. 808 c.p.c.). Secondo la dottrina piu' autorevole, trattasi di due contratti tout court - come giustamente nota il Verde, Diritto dell'arbitrato rituale (Torino 1997) p. 37, anche il considerarlo invece "un accordo derivante dalla confluenza di manifestazioni unilaterali di volonta'" non determinerebbe ripercussioni di rilievo, atteso che l'art. 1324 c.c. prevede l'applicabilita' agli atti unilaterali delle norme che regolano i contratti -, per i quali, pur riconoscendo tale natura, sono state coniate diverse definizioni: "contratto avente ad oggetto non il diritto sostanziale controverso, ma la scelta di un particolare mezzo per conseguire la tutela giurisdizionale del diritto" (Vecchione, L'arbitrato nel sistema del processo civile, II ed., Milano 1971, p. 192); "contratto avente effetti processuali" (Schizzerotto, Dell'arbitrato, II ed. Milano 1982, p. 49; definizione sostanzialmente accolta anche piu' di recente: Ferronato, Rebecca, Manuale dell'arbitrato, Il ed., Milano 1994, p. 107). Ne' pare possa dimenticarsi la lezione del Satta (Commentario al codice di procedura civile, vol. IV, tomo 2o, Milano 1971, p. 190), il quale, ricordata la nozione della dottrina processualistica tedesca di "contratto processuale" (da lui considerata inaccettabile), giudicava addirittura troppo angusti i limiti del contratto per racchiudere la figura del compromesso, il quale si sostanzierebbe nella possibilita' riconosciuta dalla legge al privato di comporre una controversia attraverso la determinazione di un ordinamento che non e' quello del giudice ma quello del privato. La individualita' dell'accordo compromissorio quale contratto, e per di piu' contratto autonomo rispetto a quello cui inerisce, puo' quindi oggi affermarsi senza ombra di dubbio. Di recente hanno trovato il proprio riconoscimento normativo nell'art. 808, ultimo comma, c.p.c., anche le osservazioni del Carnelutti (Clausola compromissoria e competenza degli arbitri in Riv. dir. comm. 1921, p. 327 ss.), gia' ampiamente condivise nel tempo dalla giurisprudenza: a seguito della cd. riforma dell'arbitrato (legge n. 25 del 5 gennaio 1994), per dirimere ogni possibile controversia, tale disposizione ora espressamente prevede che "la validita' della clausola compromissoria deve esser valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce". In quest'ottica, va dunque riaffermata non solo l'autonomia della figura contrattuale della "convenzione di arbitrato" (nozione nella quale il Verde, op. loc. cit., fa rientrare sia il compromesso che la clausola compromissoria) rispetto al contratto cui inerisce, ma anche rispetto al negozio accessorio rappresentato dall'atto con il quale ciascuna parte sceglie il proprio arbitro, indicando i quesiti ai quali intende chiedere una risposta giuridicamente vincolante al collegio il cui potere decisionale aveva gia' radicato al momento della sottoscrizione della convenzione di arbitrato. Tale negozio accessorio (usualmente denominato "domanda di arbitrato") puo' quindi esser correttamente definito quale "atto di integrazione del precedente negozio volto all'integrazione dello stesso, e, come tale, surrogabile dall'intervento del magistrato" (Verde, op. cit., p. 38). La volizione privata idonea a legittimare il ricorso ad arbitri per una decisione giuridicamente vincolante su una res controversa va dunque considerata quale contratto, che, come tale, soggiace alle note regole interpretative di cui agli artt. 1362 ss. C.c. La validita' della clausola compromissoria deve essere valutata in relazione alla sussistenza, al momento della sua sottoscrizione, delle condizioni richieste dall'ordinamento per la sua legittimita'. Il divieto contenuto nel d.l. n. 180/1998 implicherebbe invece un divieto con effetti retroattivi che pone - a parere di questo collegio - rilevanti problemi di compatibilita' con principi generali dell'ordinamento, quali appunto quello opposto della irretroattivita' della legge (art. 11 delle preleggi), nonche' quello del riconoscimento del carattere vincolante degli impegni assunti in sede di autonomia negoziale delle parti, quest'ultimo elevato al rango di principio di livello costituzionale dall'art. 41, comma 1, Cost., allorche' queste abbiano gia' espresso, come e' avvenuto nella materia in esame, la volonta' di devolvere ad arbitri ogni controversia. In tal caso, la legge inciderebbe sul fatto o l'atto generatore del rapporto, nella specie la clausola compromissoria, eliminandone gli effetti, sia attuali che futuri (Cass. n. 271/1973, n. 1156/1966 e n. 6697/1975; Cons. Stato n. 895/1974), ponendosi palesemente in contrasto con il principio della certezza del diritto, certamente vulnerato da una disposizione che elimini successivamente gli effetti di un rapporto negoziale gia' sorto e pienamente valido ed efficace. La norma in esame appare quindi in contrasto non solo con i suddetti principi generali dell'ordinamento, ma anche con canoni costituzionali, quale il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25), quello delle parita' di trattamento (art. 3), quello incidente sull'autonomia contrattuale (art. 41, comma 1), introducendo la legge, in modo irragionevole, una diversita' di regime nei confronti di clausole compromissorie stipulate nel medesimo tempo ed in base ad una stessa disposizione di legge (si pensi, per quanto rileva nel presente giudizio, all'art. 16 legge n. 219/1981). In altri termini, l'atto d'imperio normativo che, operando retroattivamente, destituisca di efficacia un negozio nato nella vigenza di una diversa normativa, viene a turbare non solo l'ordinato svolgimento delle relazioni economico-sociali su di esso fondate, con gravissimo attentato al principio di certezza e della stabilita' dei rapporti giuridici gia' costituiti, ma anche i principi costituzionali richiamati. Tertium non datur. O si ritiene: a) che il divieto di cui al d.l. n. 180/1998 non abbia l'efficacia di incidere sulle convenzioni arbitrali valide e legittime al momento della loro sottoscrizione, e dunque ad esso non potrebbe riconoscersi il potere di far considerare nulle le domande di arbitrato proposte sulla base di clausole compromissorie ancora valide (in altre parole, attesa la natura di atto negoziale che riveste la clausola compromissoria, appare evidente come la sua validita' o invalidita' per contrarieta' a norma imperativa debba valutarsi con riguardo al sistema legislativo vigente al momento in cui essa fu formata, sulla base del noto principio tempus regit actum); oppure si ritiene: b) che tale norma, in via eccezionale, e con efficacia generale (in ordine alla quale qualche dubbio suscita, tra l'altro, anche la sedes materiae) abbia abrogato/annullato tutte le convenzioni arbitrali relative a "programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali", sottoscritte precedentemente alla entrata in vigore della legge, in tal modo ledendo tuttavia non solo i noti e richiamati principi ermeneutici di interpretazione contrattuale e di successione/efficacia delle leggi nel tempo, ma anche gli indicati articoli della Carta costituzionale (art. 3, 25, 41 comma 1, 76 e 77). b. Una soluzione intermedia - che e' stata gia' prospettata in giurisprudenza: cfr. sentenza Corte di appello di Napoli n. 1940/2001 - immagina di poter superare l'impasse affermando che la norma sospettata avrebbe inciso non sulle clausole compromissorie inserite nelle convenzioni di concessione ex lege n. 219/1981, bensi' soltanto sulla proponibilita' e legittimita' delle domande di arbitrato successive all'entrata in vigore della norma. Il collegio tuttavia ritiene di non poter condividere tale tesi. Innanzi tutto, in quanto non puo' ammettersi l'utilizzo impreciso e atecnico da parte del legislatore del termine "devoluzione" (la norma sospetta prescrive che "non possono essere devolute a collegi arbitrali"), che notoriamente ha il significato di radicare la competenza del giudice non al momento della effettiva proposizione della domanda di giustizia, bensi' a quello anteriore in cui la legge o l'accordo delle parti (clausola compromissoria) individua il giudice della insorgenda controversia. La conferma di tale corretta interpretazione - che non consente di condividere l'affermazione della Corte di appello napoletana - deriva da numerose norme di legge: per limitare l'analisi al solo codice di rito, cfr. artt. 50-bis, n. 3; 669-octies, comma 4; 669-novies, comma 4; 669-decies, comma 2. In altre parole, la corretta lettura del termine utilizzato dal legislatore non ammette di ritenere che il divieto ivi contenuto riguardi soltanto il momento successivo della proposizione delle domande di arbitrato, e non la preventiva individuazione del giudice competente, merce' (nella fattispecie) clausola compromissoria. Inoltre, vale la pena di osservare come tale rilievo risulti confermato dal fatto che il legislatore, quando ha inteso individuare le materie che non possono formare oggetto di arbitrato, ha correttamente fatto riferimento al compromesso, e non all'atto successivo della domanda di arbitrato (cfr. art. 808 C.p.c.), fissando le materie non "compromettibili". In ogni caso, la prospettata ipotesi interpretativa - ove se ne ammettesse la fondatezza - finirebbe con il violare altro principio costituzionale, quello di cui all'art. 41, comma 1, il quale garantisce l'autonomia privata. La imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento della autonomia contrattuale, come la modificazione e l'eliminazione di clausole di contratto, e' ammissibile quando esse siano contrastanti con l'utilita' sociale; l'autonomia contrattuale deve cedere di fronte a motivi di ordine superiore, economico e sociale, considerati rilevanti dalla Costituzione (cfr. Galgano, Il diritto privato fra codice e costituzione, Bologna 1978, p. 125). La mancanza di tali motivi "di ordine superiore" - che non si ritiene possano rinvenirsi in un apodittico interesse al rapido esito delle controversie attinenti ad opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali, in quanto lo stesso non sarebbe certo garantito dalla esclusione degli arbitrati; ne' in ragione dell'elevato assunto valore delle relative controversie, in quanto non solo la norma sospetta non pone limite di valore economico, ma anche perche' controversie di valore anche maggiore non subiscono lo stesso divieto (si pensi che le controversie facenti capo all'ex Ministero LL.PP., ora Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ammontano a circa lire 3.000 Mld., mentre quelle attinenti all'esecuzione di opere ex lege n. 219/1981 a circa lire 600 Mld.: fonti Ministero infrastrutture e Commissariato straordinario di governo); ne' in un disfavore dell'ordinamento per gli arbitrati: ma sul punto cfr. infra sub d. - fa quindi ritenere la norma in violazione dell'art. 41, comma 1, Cost. c. Non puo' essere dimenticato poi che la norma in discussione incide su temi di rilievo soprattutto processuale, e non sostanziale, che devono essere interpretati nel quadro ordinamentale che emerge dalla stessa sentenza della Corte costituzionale n. 376/2001, nella parte in cui afferma che "l'arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialita' tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l'aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione". Essa precisa poi che il giudizio arbitrale "e' potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione". Il collegio ritiene che l'effettuata equiparazione del giudice arbitrale agli organi della giurisdizione ordinaria possa determinare conseguenze anche sotto un profilo costituzionale, rilevante per la questione in esame. Il collegio dubita cioe' che la norma sospettata, che avrebbe inciso sulla validita' delle clausole compromissorie, possa aver determinato una violazione della norma di cui all'art. 25 Cost., in quanto essa distoglie ex post le parti dal loro giudice naturale precostituito secundum legem, da intendersi quale quello che essi si' erano legittimamente precostituito con atto lecito di sovrana autonomia, previsto, garantito e disciplinato dalla legge (la clausola compromissoria). Il collegio conosce la giurisprudenza consolidata che ha considerato "la competenza arbitrale come derogatoria alla competenza del giudice naturale" (cfr. Cass. n. 12175/2000, n. 5717/1998), ma ritiene che la sentenza della Corte costituzionale n. 376/2001, nella sua ampiezza di argomentazioni convergenti, porta ad acquisire alla definizione di giudice naturale anche quello arbitrale, non rinvenendosi allo stato motivi ostativi a tale conclusione. Tale opinione e' confermata dal fatto che l'art. 23 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953 ("Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale") fa esplicito ed inequivocabile riferimento ad una "autorita' giurisdizionale" (comma 1), innanzi alla quale nel corso del giudizio puo' esser sollevata la q.l.c. in via incidentale, e che la medesima norma ribadisce lo stesso termine specificando (comma 4) che la q.l.c. puo' essere sollevata anche "di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio". Potendo esser sollevata la q.l.c. incidentale soltanto da un'autorita' giurisdizionale, ed essendo stata affermata la legittimazione degli arbitri rituali a sollevare la q.l.c., appare evidente che tale natura non possa non esser riconosciuta ai collegi arbitrali rituali a seguito della sentenza n. 376/2001. Ne' pare possa condurre ad una discriminazione nei confronti dei collegi arbitrali il collegamento rinvenibile tra l'art. 25, primo comma, Cost., e l'art. 102, primo comma, Cost., per il quale "la funzione giurisdizionale e' esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario". E' noto, difatti, che la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale ha nel tempo riconosciuto la natura di funzione giurisdizionale anche ad organi che sono chiaramente al di fuori dell'ordinamento giudiziario, inteso nel senso di cui all'art. 102, primo comma, Cost. Basti ricordare al proposito le sentenze relative alla legittimazione a sollevare la q.l.c. da parte degli ordini professionali (n. 189/2001, n. 284/1986), nelle quali la natura giurisdizionale "viene desunta principalmente dal fatto che avverso le decisioni dei consigli, inerenti alle attribuzioni suddette (materia disciplinare e iscrizione all'albo), e' direttamente previsto il ricorso per Cassazione, il quale nel nostro sistema e' diretto al controllo su provvedimenti di natura giurisdizionale" (cosi' la citata sentenza n. 284/1986, la quale richiama a conforto anche la pregressa giurisprudenza della stessa Corte: n. 110/1967, n. 114/1970, n. 27/1972, n. 175/1980). In aggiunta, il Collegio ritiene che la interpretazione della norma di cui all'art. 102, primo comma, della Costituzione vada ora integrata con l'art. 111 Cost., nel testo novellato dall'art. 1 della legge costituzionale n. 2/1999. In particolare, i primi due commi dell'art. 111 stabiliscono ora: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale". La lettura combinata delle due disposizioni consente di confermare la gia' consolidata opinione della Corte, la quale ha ritenuto di poter estendere l'ambito dei soggetti legittimati a sollevare la q.l.c. in via incidentale sulla scorta della stessa interpretazione di cui alla appena citata sentenza n. 284/1986. In particolare, per quanto qui interessa, il procedimento innanzi ad un collegio arbitrale rituale gode di tutti i presupposti ed elementi del "giusto processo" individuati dall'art. 111 Cost., e pertanto rispetta a pieno titolo i principi della giurisdizione nel quadro costituzionale. Alla luce di questi presupposti, ritenuta la configurazione del procedimento innanzi a collegio arbitrale rituale quale giudizio innanzi ad autorita' giurisdizionale legittimata a sollevare q.l.c., constatato che l'efficacia delle clausole compromissorie nella regolamentazione di interessi di natura privatistica quali contratti idonei ad individuare ex ante il giudice competente per la risoluzione di eventuali controversie inter partes discende dalla legge, questo collegio - pur consapevole della novita' della prospettazione - non ravvede ostacolo nel considerare il collegio arbitrale quale giudice naturale delle parti che ad esso risultino vincolate da una clausola compromissoria che non infranga i divieti di cui all'art. 806 c.p.c., o un qualsiasi altro divieto purche' precedente alla sottoscrizione della clausola compromissoria. Sulla base di tale inquadramento, risulta evidente che l'annullamento ex post delle clausole che, secondo la legge, radicano la competenza del giudice arbitrale per la risoluzione di controversie tra privati (come risulterebbe dall'interpretazione giurisprudenziale della norma sospettata), determina un chiaro vulnus al richiamato principio di precostituzione del giudice naturale di cui all'art. 25 Cost. Al riguardo, la Corte costituzionale ha avuto modo di prendere una netta posizione sin dal 1963 (sentenza n. 2), ove, nell'evidenziare la maggiore rilevanza della precostituzione rispetto alla individuazione del singolo giudice, ha affermato che "l'art. 25 Cost. vieta di imporre la competenza di un giudice non precostituito, e quindi di interdire il ricorso al giudice istituito, ma non pone limitazioni al potere soggettivo di scegliere fra piu' giudici egualmente competenti secondo l'ordinamento generale". Piu' di recente, con ordinanza n. 176 del 20 maggio 1998, lo stesso giudice delle leggi ha avuto modo di precisare che "il principio della precostituzione per legge del giudice naturale e' leso soltanto quando il giudice e' designato in modo arbitrario e "a posteriori oppure direttamente dal legislatore in via di eccezione singolare alle regole generali, ovvero attraverso atti di soggetti ai quali sia attribuito il relativo potere in violazione della riserva assoluta di legge stabilita dall'art. 25, comma 1 Cost., ma non anche qualora l'identificazione del giudice competente sia operata dalla legge sulla scorta di criteri dettati preventivamente, oppure con riferimento ad elementi oggettivi capaci di costituire un "discrimen della competenza o della giurisdizione dei diversi organi giudicanti". Sulla scorta di tale affermazione, il collegio ritiene sussistere il dubbio di costituzionalita' della norma di cui all'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180/1998, sotto il duplice profilo sia della designazione del giudice "a posteriori" (che risulta in re ipsa, dovendo esso essere individuato sulla base di una norma successiva), sia della "eccezione singolare alle regole generali". Sotto questo ultimo aspetto, va osservato che in tema di realizzazione di opere pubbliche non si rinvengono nell'ordinamento regole generali che dispongano divieti alla devoluzione delle controversie a collegi arbitrali. Anzi, l'opzione arbitrale in materia di opere pubbliche risulta essere espressamente consentita dall'art. 31-bis della legge n. 109/1994. Essa e' inoltre espressamente ammessa anche dall'art. 6, comma 2, della legge n. 205/2000, in materia di giurisdizione amministrativa. La regola generale e' dunque da rinvenire nella liberta' e autonomia delle parti nella eventuale attivazione della potesta' arbitrale, e conseguentemente la norma sospettata - in quanto sottrae alle parti in una materia specifica ("opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali"), peraltro in modo irragionevole, il potere di far decidere le loro controversie da collegi arbitrali si pone quale evidente "eccezione singolare alle regole generali", nel senso lesivo del principio invocato gia' rilevato dalla sentenza n. 176/1998. d. La norma non pare sottrarsi neanche alla denuncia di violazione del parametro di cui all'art. 3 Cost., con precipuo riferimento al generale canone di ragionevolezza, e a quello della disparita' di trattamento per situazioni identiche. Appare difatti chiaramente incongruo ammettere che la norma impeditiva degli arbitrati trovi il suo giusto spazio anche nelle disposizioni aventi ad oggetto la "definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219", considerato che una delle caratteristiche tipiche e dei pregi riconosciuti all'arbitrato e' proprio la maggior celerita' dei giudizi. Viceversa, secondo la norma sospettata, nella interpretazione condivisa dalla sentenza n. 376/2001, tutte le controversie riguardanti opere di ricostruzione di qualsiasi calamita' naturale, dovrebbero essere affidate alla cognizione del giudice ordinario, la cui poca celerita' (con il conseguente aggravio di spese e costi, non solo sotto il profilo legale, ma anche sotto quello dell'incremento delle voci di interessi e rivalutazione) e' fatto notorio. Ne' la oggettiva irragionevolezza potrebbe esser superata considerando un preminente interesse pubblico sulla materia, atteso che non si capirebbe come tale interesse - ammesso che possa individuarsene uno di tal genere - possa esser salvaguardato impedendo il ricorso al giudizio arbitrale. Tale opzione interpretativa si scontra quindi con l'assenza di "motivi di ordine superiore" e comunque di un preciso interesse pubblico al divieto di arbitrato in subiecta materia, che sicuramente non puo' rinvenirsi nell'elevato valore delle controversie in quanto risulterebbe allora irragionevole che il legislatore abbia vietato il ricorso ai giudici arbitri soltanto in una sola specifica materia tra quelle che lasciano presumere un elevato valore delle relative controversie. Il divieto oggetto della normativa sospettata si scontra invece con il generale e sempre maggiormente diffuso apprezzamento che l'arbitrato riscuote nel nostro ordinamento, e anzi col recente ampliamento dei suoi limiti di applicabilita' (legge n. 205/2000), donde l'irragionevolezza anche sotto questo specifico profilo. Inoltre, l'art. 3 appare chiaramente leso, sotto il profilo del generale principio di eguaglianza, nel momento in cui soggetti privati (magari meno litigiosi) si vedono discriminati nella loro facolta' di adire il pattuito giudice arbitrale rispetto ad altri soggetti che invece, sulla base della medesima clausola compromissoria, avessero gia' attivato la clausola arbitrale prima dell'entrata in vigore della norma sospettata.